Magicamente, come spinti dallo stesso desiderio, stamattina ci siamo svegliati assieme, nello stesso istante. Senza parlare, ci siamo lanciati sguardi oltre la spalle, oltre la tazza del caffè, e poi siamo usciti da casa mano nella mano per raggiungere la spiaggia.
Dev’essere per quest’aria così livida e bluastra, per questo cielo così denso e gelatinoso, un cielo che condizione la percezione di se stessi, e allora abbiamo avuto entrambi il bisogno di avvicinarci al mare, nonostante una prima pioggia avesse preso a bucherellarne la superficie. Abbiamo messo un piede nell'acqua, lentamente, sentendo la pelle reagire con un urlo, sentendo le strida dei gabbiani all'orizzonte, sentendo la pace del mondo invaderci le ossa. Eravamo solo noi due su quel lido, ma avremmo potuto essere solo noi due in tutto il mondo. Poi, all'improvviso, alle nostre spalle, in strada è cominciato un fermento; i ristoranti di pesce, le taverne, i negozi di souvenir, le pescherie, i venditori ambulanti di frutta. Tutti si davano un gran da fare. Alle nostre spalle la vita era semplicemente impazzita, io allora l'ho trascinata con me in mare e quando ci siamo distesi, con la faccia rivolta al cielo, e la pioggia che ci bagnava le palpebre, lei mi ha detto sottovoce: "Sento delle voci" Le ho domandato che voci fossero, e che cosa le dicessero. Mi è sembrata sconvolta, si è girata e poi mi ha toccato la spalla "Ho capito" - ha detto "Era tutta un’illusione la mia vita. Fino ad oggi è stata tutta un'illusione, un vorticoso caos cerebrale, da cui alla fine, alla fin fine, è emerso perfetto e totale, l’ordine, questo ordine, questo momento qui. Vorrei che non ci fosse nient'altro che questo momento qui" Ci siamo abbracciati nel mare e siamo scesi giù e mentre scendevamo le ho detto, con la voce che si riempiva di mare e salsedine "La sera scivolo sotto le coltri e tu sei là che mi aspetti. Che altro c’ è nella vita oltre alla persona che si adora? Tu credi di essere sola, ma non è così, perché gli spiriti della luce ti aiuteranno e ti porteranno verso l’alto, a dispetto di te stessa, e lì ci ritroveremo, e lì non ci sarà nient'altro che quest'ordine perfetto" re.
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Ma io ti ho aspettata e ti aspetterò ancora, anche senza parlarci, anche senza silenzio, anche se troppo feriti o troppo stanchi, ti aspetterò perché l'albero deve attendere la terra per sentirsi vero e forte e possente, e la verità, la sola miserabile e unica verità è che da quando tu sei andata via dalla mia vita io non ho più terra da toccare, non sento più radici dentro di me, da quando sei andata via non c'è cielo e non c'è ossigeno, c'è solo il ricordo, il ricordo della terra del cielo e dell'ossigeno, e ovviamente questo è ancora più straziante, perché il ricordo mi assale e mi apre strane ferite lungo la carne, e benché qualcuno scrisse - in un tempo che oggi mi appare remoto e che davvero non so capire - che le crepe sono necessarie, perché è da lì che transita la luce, io so che l'unica luce che avrei voluto far transitare in me era la tua presenza, era la bellezza evangelica della tua carne, il candore sofisticato delle tue mani e del tuo seno, il martellante scintillio del tuo sorriso. Ma questo adesso è passato, nelle mie crepe non passa luce, nelle mie ferite non c'è sangue, nelle mie vene non c'è domani, l'albero si sta rinsecchendo, svuotato di linfa, e miliardi di parassiti mi mangiano l'anima e i pensieri, e così non ho più pensieri e non ho più anima, ho soltanto una cosa: il tempo dell'attesa. Dunque io ti aspetterò, come un mendicante aspetta, nel suo angolo di strada, con la mano testa e lo sguardo basso, con la bocca schiusa in un sorriso di distanza dalle cose del mondo, che poi chi se ne frega del mondo ormai, lo farò come se non ci fosse nient'altro che questo, la mia mano aperta, pronta per stringere, e la tua figura, ormai troppo lontana e remota.
Quando arrivava l’estate, Napoli sprofondava in una luce onnipotente e dolciastra, una luce piena d'umidità, sensuale e potente, che si conficcava nel cervello e ne rallentava i pensieri. Era una luce che si poteva assaggiare sulla punta della lingua, eppure non toccava mai davvero niente, si limitava a rimanere in alto, sospesa e distante, oltre ogni cosa, oltre le cime degli alberi, oltre i tetti delle case, oltre i pennoni dondolanti delle barche nella darsena di via Partenope. Era una una luce che cominciava a manifestarsi nelle ultime settimane di maggio e poi, man mano che proseguivano i mesi, scolorava in una serie di gialli sempre più sottili finché arrivava agosto, e agosto era il mese bianco per eccellenza, era il mese in cui la luce perdeva definitivamente consistenza trasformandosi in un'unica vampata di vapore bianco, ossessivo e debordante.
Era questa la luce che Teo attendeva per tutto l'anno, pensando che fosse lì dentro il segreto della sua salvezza, il segreto per stare bene col mondo, benché questa cosa ovviamente non l'avrebbe mai rivelata a nessuno. Ma lui sapeva, in un modo impercettibile ma definitivo, che ogni vita può andare avanti solo al prezzo di cogliere alcuni momenti assoluti, e da sempre, da quando aveva preso coscienza del suo essere al mondo, i suoi momenti assoluti coincidevano con due cose: sentirsi circondato da questa luce. E correre. Da quasi un anno si è stabilito in una casa nuova. Nella parte più a sud del Cilento, in un vecchio casale che affaccia sulla baia di Punta Licosa. L'ha presa in affitto appena l'ha vista. Senza discutere sul prezzo con il proprietario.
E' successo tutto ad inizio primavera. Un pomeriggio di fine marzo ha fatto il giro dei suoi figli. Ha distribuito loro degli assegni e ha indicato le modalità per prendere possesso del vecchio appartamento di via de Mille. Quello dove lui ha vissuto tutta una vita e dove loro erano cresciuti. Non ha atteso le loro domande, ha semplicemente detto "fatene quello che volete". Da dieci anni è divorziato. Ha da poco tempo una compagna che viene a trovarlo saltuariamente. A volte si ferma una settimana, a volte di più. Per lui è lo stesso. Prepara da mangiare, fa la spesa, mette in ordine. A volte tenta di organizzare delle gite, ma lui declina sempre. Quando qualche volta lei prova a domandargli il perché di quella scelta, lui si limita a restarsene sul balcone della casa e a sprofondare lo sguardo nel mediterraneo. Ora che ha settant'anni suonati, gli pare che non ci sia più nulla da spiegare. E più nulla da domandare. Alla sua compagna vorrebbe dirlo. Tutto è stato provato, fin nei minimi dettagli. E niente ha più peso, niente può più distruggermi, e nemmeno incuriosire. Tutto si consuma, tutte le chiacchiere tutte le noie tutte le paure tutte le frustrazioni tutte le eccitazioni tutte le curiosità tutte le notti insonni tutti i tormenti. Qualche amico ha provato a chiamarlo, ma lui pensa di non essere mai stato bravo come amico. Troppo sensibile E troppo volubile. Se mi sento tradito, tradisco immediatamente, dice di se stesso. Se mi sento abbandonato, volto le spalle e non ritorno più. Questo sono io, uno stronzo e un galantuomo. Per cui agli amici non dice nulla. E spesso lascia suonare il cellulare senza rispondere. Poi manda un messaggio semplice. Dormivo. Facevo la doccia. Non ho sentito. I sensi di colpa gli affanni gli stratagemmi l'erotismo il desiderio le insidie i ricatti i tremori l'ansia e la bellezza sono solo ricordi. Capitoli chiusi. Affacciato dal suo balcone contempla ogni giorno l'avanzata della luce sulla superficie del mare, si interroga sul senso dell'azzurro e sulla natura vaporosa di quella terra. Vorrebbe provare un esperimento. Rimanere una settimana completamente muto. E poi man mano salire di livello. Due settimane. Un mese. Due mesi. Etc... Ma per ora non ne ha il coraggio. Ha smesso anche di leggere. Trent'anni all'università a insegnare Nietzsche e Kierkegaard gli hanno spalancato un'unica incrollabile certezza. Che la filosofia arriva a stento a toccare la superficie del mondo. E che soltanto la vita può consolare dalla vita. Soltanto la morte può guarire dalla paura della morte. Ha anche un'ultima speranza: soltanto il mediterraneo ha quell'unica risposta che vale la pena ascoltare. Ho avuto un momento di grande felicità ma poi è finita. Mi sono accorto che avevo chiesto troppo, forse tutto: avevo una vita piena di sole ed ero un uomo che viveva con una donna bellissima e credevo in noi e credevo che tutto sarebbe andato com'era giusto che andasse. Ero un uomo povero, non guadagnavo abbastanza e avevo vestiti lisi e scoloriti, ma ero felice quasi tutto il tempo, ero più felice di quanto mai avrei pensato di essere, ma ero più duro, crudele e solo di quanto mai avrei potuto immaginare.
Adoro agosto per la sua luce bianca e ipnotica. Per il suo odore torbato e per il suo silenzio. Adoro agosto perché non ha tempo; perché è un altro tempo. E poi adoro i pub all'ombra, la birra gelata, il mare dopo le 18, il caffè freddo la mattina, la granita dopo il sudore. Adoro le strade vuote, le piazza shoccate dal caldo, i vicoli dove l'ombra striscia a fatica sulle pareti. Adoro l'aroma resinoso dei pini e dei castagni, l'odore dei prati che si bruciano nel meriggio e rifiatano la sera, e poi quello granuloso della sabbia e quello violento della menta dentro il mojito. Adoro leggere in giro per la città, trovare uno spazio vuoto, un muretto, una scalinata incassata tra palazzi, un bar sperduto con quei vecchi ventilatori a soffitto che muovono appena appena l'aria. E il silenzio della controra, il rumore scoppiettante del sole sulla superficie del mare, il chiacchiericcio regale delle cicale nei grandi viali circondati da siepi. Adoro il momento di beatitudine del vento, l'istante assoluto e estremamente veloce in cui il libeccio si alza dal mare e regala un po' di tregua al corpo spossato dall'afa. E adoro l'afa perché spossando il corpo lo spossessa, riduce tutte le percezioni, annulla i pensieri, crocifigge le ansie, distrugge le paure, ci rende tutti figli della stessa comunione luce-mare. Perché non c'è altro nel mondo. Solo sentirsi parte di esso. Adoro scrivere di fronte al mare, immaginare dettagli mentre mi sdraio a terra per cercare il fresco del pavimento sul corpo. Adoro la notte che non sembra separata dal giorno ma è solo una sua continuazione, perché il caldo è sempre uguale e i sogni si imperlano di sudore.
![]() #lafelicità #inprogress #racconto In un universo parallelo, in un mondo migliore di fede e non di tenebra, in un mondo dove lui sarebbe stato semplicemente Malcolm Lowry lo scrittore, lo scrittore vagabondo ma concentrato, con accanto la sua dolce moglie nella grande casa di Cuernavaca, in quel mondo definito da una luce diversa da questa che da oltre due ore gli si è conficcata sotto le palpebre e lo costringe ogni tanto ad alzare una mano, a scacciare qualcosa che gli sembra di vedere innanzi a lui, benché poi si riveli sempre e solo un riflesso di qualcos'altro, qualcosa che forse gli sta sgorgando da dentro e che si materializza nella sua retina come ombra sottile, come falena allucinata, in quel mondo perfetto l'incontro con quella donna avrebbe avuto ben altro effetto su di lui, sarebbe stato l'indizio di una possibilità nei rapporti umani, sarebbe stato un momento di dissetamento. Mentre in questo universo qui, dove lui era semplicemente Malcolm Lowry alla deriva, naufrago disperato sulla patina inconsistente del proprio talento, dove era Malcolm l'ubriacone, Malcolm che si ripeteva ogni giorno nella propria testa le migliaia di frasi che avrebbe potuto comporre il suo romanzo ma che alla fine non scriveva mai realmente, non quanto e come avrebbe voluto, perché troppo preoccupato di farlo per farlo davvero, quell'incontro finì per assumere il connotato di un sogno che svaniva nell'atto stesso di essere sognato. La donna con le rughe profonde sulla pelle olivastra, il fetore di uva marcia e di mosche nel retro della sua bottega di frutta, la tenda verdognola che separava l'ingresso dal centro della piazza infuocata, la voce messicana lenta e gutturale, da mamma premurosa, da madre sconosciuta che come tutte le mamme voleva solo la salvezza dei propri figli, di tutti i figli dell'universo, perché solo così il mondo sarebbe stato un posto migliore e meno assurdo, solo con la salvezza dei figli e l'amore incondizionato delle madri, e se c'era qualche creatura che vagabondava sperduta sulla terra era compito di un'altra madre farsene carico, accoglierla nel grembo assoluto del proprio amore, e dirgli quelle tre quattro cose che un uomo moribondo ha bisogno di sentirsi dire, che non siamo tutti soli, che non tutto è perduto, che basta cominciare dalla prima e più semplice delle cose, smettere di uccidersi, per ritornare lentamente a respirare. Ma quello era appunto un sogno e nient'altro. Così pensava Malcolm Lowry, che sorrise alla donna e si alzò dalla sedia di legno. Affrontò i due metri che lo separavano dalla tenda e dalla piazza che c'era oltre come un condannato a morte affronterebbe il miglio verde. Con la consapevolezza che nulla, in realtà, sarebbe stato davvero possibile per lui. Tanto meno salvarsi. A Chios, minuscola isoletta greca a poche miglia dalla costa turca, una di quelle meno battute dalle rotte turistiche di massa, può capitare di incrociare i pochi sguardi di chi conosce il segreto. E quindi entrando alle 19 nel bar di Yorgos, un chiosco di dieci metri quadrati che affaccia sulla spiaggia di Mavra Volia, mentre il vento di meltemi porta un po' di tregua alla giornata di sole e tutt'attorno si accende il rito dell'aperitivo, rispondere al barista che ti domanda cosa vuoi bere:
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Settembre 2017
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